Maturo è meglio di immaturo. Sembra un’affermazione ovvia e comunque necessaria se applicata all’umanità di un prete. Nel concreto, tuttavia, parlare di maturità comporta almeno un problema: non si sa bene in che cosa esattamente consista. Nel senso comune, il termine viene associato alla corrispondenza fra età anagrafica ed età psicologica: può ritenersi matura una persona che si comporta secondo i modi propri dell’età che ha, definizione che coinvolge anche aspetti culturali e solleva interrogativi sul peso della «normalità» e delle convenzioni sociali. Il Vangelo non chiede ai cristiani la maturità, ma la santità. E non si tratta della stessa cosa se anche tra gli apostoli e i molti santi di ieri e di oggi non sono mancate figure dalla psicologia «bizzarra» e tuttavia capaci di offrire con la loro vita un bagliore della perfezione evangelica. Gesù, oltretutto, ha espressamente e insistentemente rivolto l’invito a diventare come bambini. Slogan ad effetto oppure richiesta reale, ma non scontata, di allargare gli spazi della propria immaturità così da renderli luoghi dello Spirito? Ma in che modo? Un sacerdote-psicologo suggerisce alcune risposte, indagando luoghi di possibile immaturità che fanno parte della vita di un prete: la preghiera, la tentazione, l’inquietudine, la visione, la perversione, la bellezza, la trasgressione, l’appartenenza, la solitudine, la presidenza.
9788810508480
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